Racconti di Stracquo (5) – di Vincenzo (Enzo) Di Fazio
Veduta aerea del faro di Zannone – foto di Giancarlo Giupponi
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Era inevitabile che le letture di questi giorni, sullo stracquo e sull’arte che genera e stimola, mi riportassero indietro nel tempo agli anni
dell’adolescenza trascorsi a Zannone, quando mio padre era lì a prestare servizio come guardiano del faro.
Erano gli anni in cui lo stracquo ci impegnava e ci divertiva.
Ci impegnava perchè, come ho già avuto modo di raccontare su questo sito parlando di fari e ricordi, era pratica diffusa quella di andare,
dopo le tempeste quando il mare si era quietato, in compagnia dei grandi, a cercare tra gli scogli.
Lo scopo era quello di trovare qualche pezzo di legno buono da utilizzare per rinforzare una porta o completare il cancello di un giardino,
ma si sperava anche di imbattersi in qualche bella tavola levigata e regolare nelle misure, che il mare, nella sua furia, aveva magari
strappato al carico di una nave in difficoltà.
Per i nostri padri quei ritrovamenti erano l’equivalente di una pesca fruttuosa.
Quei legni venuti chissà da dove, rimanevano per giorni al sole ad asciugare mentre lievitavano nelle menti dei fanalisti le idee per trarne
scanni, sedie, stipetti, portapiatti da muro, tavolini ed altro. Ognuno di loro, chi da autodidatta chi seguendo i lavori dei più bravi, aveva
imparato, nel corso degli anni di servizio, come trattare il legno e come da quello che avevano a disposizione ricavare oggetti utili
C’era a Zannone, come peraltro presso ogni faro, un locale adibito ad officina con un grande tavolo da lavoro dotato di morse, pialle, seghe
e trapani da far invidia ai laboratori dei maestri-falegnami di Ponza come quelli di Salvatore Pacifico, Silverio Tricoli e Ciro Iacono.
Così negli anni vissuti a Zannone mi era capitato di assistere alla realizzazione di barche in cui erano particolarmente bravi i fratelli
Francesco e Filippo Vitiello, o alla costruzione di sedie sdraio e scale in cui si era specializzato mio padre. E’ ovvio che non tutta la materia
prima per creare queste cose veniva dal mare, ma spesso ciò che si raccoglieva tra gli scogli andava ad integrare specularmente quella
acquistata.
Come dicevo prima, quella pratica di andar per scogli ci divertiva anche, perché là dove il mare si infrangeva si poteva incastrare di tutto
e, per noi ragazzi, quel vagare tra rocce diventava una sorta di caccia al tesoro.
La zona da perlustrare era vasta.
Una piccola parte era rappresentata dagli scogli che si sgranavano a destra ed a sinistra della “preta”, il grande masso utilizzato come
attracco dalla “Santissima Trinità” di Gigino Parisi, il gozzo che assicurava il servizio di collegamento tra Ponza e Zannone.
Un’altra parte, molto più estesa ed anche meglio “percorribile” perché costituita da scogli più piccoli, si snodava verso levante dallo “scaro”
(lo scivolo munito di falanghe e verricello utilizzato per tirare a secco la barca del faro), fin quasi a l’estrema punta dell’isola dove c’era la
spiaggia della Cercola. Una bellissima conca protetta, fatta di piccoli sassi misti a sabbia, con a monte una rigogliosa macchia di lecci e
mirtilli un luogo del desiderio per essere molto distante dal faro e faticoso da raggiungere via terra.
Cercare tra gli scogli era quasi un rito. Comportava impegno, voglia di trovare, capacità di scrutare tra gli anfratti.
Sapevamo, come quando si andava a pesca, di tornare al faro con qualcosa…Poteva anche essere un semplice pezzo di legno.
Di quelli piccoli, piallati dal mare, da tenere in una mano, rassicuranti perché levigati, capaci per come erano fatti di alimentare
la nostra fantasia. Accadeva così di vederci modellato un gabbiano in volo, un serpente arrotolato, una croce stilizzata, un cavallo al galoppo
o un oggetto qualsiasi non associabile a niente di reale ma bello semplicemente per la forma che aveva e familiare fino al punto
da sembrare d’esserti appartenuto da sempre.
Crescendo avevamo imparato a scrutare il mare dall’alto del ballatoio del faro o della strada che portava al convento.
Usavamo il binocolo di dotazione della Marina per intercettare meglio i relitti più grossi e cercare di capire, dal movimento delle onde,
in quale parte dell’isola sarebbero spiaggiati. Eravamo come sentinelle e con la fantasia ci proiettavamo nelle storie dei personaggi
dei fumetti di quell’epoca dove i nostri eroi erano Capitan Miki e Roland Eagle.
Passavamo tempo lì a perlustrare il mare mentre eravamo catturati attraverso l’occhio ingrandito del binocolo dai voli pacificanti dei
gabbiani. Accadeva, così, che distratti dall’armonia di quei movimenti perdevamo di vista i relitti che, per lo strano gioco delle correnti,
si allontanavano fino ad annullarsi là dove il mare diventava argenteo per via dei bagliori del sole.
Ci siamo nutriti di quelle visioni ed era inevitabile che crescendo in simbiosi con l’isola ci venisse voglia di fare anche noi, simulando
le attività degli adulti, qualcosa di importante dal punto di vista creativo.
Lo spunto ce lo diede il ritrovamento di un pezzo di chiglia stracquato appartenuto, visto le dimensioni, ad una piccola barca.
Erano gli anni in cui, assieme a mio padre, faceva servizio sull’isola mio zio Silverio e capitava spesso di ritrovarmi, nei mesi estivi,
in compagnia dei figli, i cugini Pomepo e Gino. C’era molto affiatamento tra di noi visto che ci frequentavamo ed eravamo più o meno
coetanei. Si collaborava con i nostri padri nelle attività di manutenzione e di pulizia al faro come nell’utilizzo del tempo libero soprattutto
quando si andava a pescare.
Gli spazi che avevamo a disposizione avevano solo i limiti dettati dal mare, praticamente eravamo padroni dell’intera isola.
Ci apparteneva il bosco per il gusto di attraversarlo nella difficile impresa di avvistare qualche muflone, animale dal carattere scontroso
e sospettoso.
Ci apparteneva il mare da cui eravamo catturati per il fascino che derivava dai suoi comportamenti e per le emozioni che sapeva
darci attraverso la pesca praticata in tutte le sue forme, da quella al traino a quella con le reti e le nasse, da quella al calamaro a quella c
on il bolentino.
Per le nostre “creazioni” avevamo a disposizione un locale a ridosso del fabbricato del faro che avevamo attrezzato con l’essenziale
per dedicarci ai nostri piccoli lavori. C’era un tavolo con diversi utensili tra cui una morsa, una sega, una pialla, alcuni giraviti, martelli
e chiodi, in definitiva un piccolo clone dell’officina di cui potevano disporre i fanalisti.
Il limite di quel luogo era solo nella mancanza di corrente elettrica (che a Zannone era generata da un gruppo elettrogeno) cui ponevamo
rimedio utilizzando, all’occorrenza, un grande lume a petrolio.
L’idea di costruire una piccola barca, partendo da quel pezzo di chiglia, nacque lì, in quel locale dove avevano preso forma sogni
e progetti attraverso la realizzazione di carriole, di fionde, di armi di legno, di canne per pescare, di archi per tirare a segno.
Quella volta facemmo addirittura un disegno con l’indicazione delle misure della barca da costruire.
Le ore trascorse ad ammirare in silenzio la manualità creativa di Francesco e di Filippo, le risposte che i maestri falegnami davano alle
nostre domande di curiosità e di voglia di sapere, quando sostavamo nei loro laboratori, per noi erano state lezioni che difronte a quel
progetto stavamo per mettere in pratica.
Avevamo messo da parte altri pezzi di legno trovati tra gli scogli, tra cui uno di quercia adatto al ruolo di dritto di prua, un altro,
parte di una grande porta, idoneo a diventare specchio di poppa. Per la carena, che nella barca dei nostri sogni, coincideva con il pagliolo,
utilizzammo del compensato marino datoci dai nostri padri.
Sagomata la carena, applicata nella parte centrale la chiglia ed inserite il dritto di prua e lo specchio di poppa ci immaginammo la piccola
barca già in navigazione, pur se consapevoli delle difficoltà legate alla realizzazione delle ordinate. Queste, di diverse dimensioni ed inclinate
in maniera diversa ognuna dall’altra, come delle costole ne avrebbero rappresentato la struttura portante e delineata la forma.
La realizzazione di quegli elementi che dovevano tenere l’abbraccio del fasciame ci impegnò tantissimo al punto da sacrificare, quell’estate,
molto delle ore che normalmente dedicavamo alla pesca e ai bagni. Spesso spingevamo il lavoro ben oltre i tempi, già lunghi, consentiti
dalla luce solare grazie all’aiuto di un grande lume a petrolio.
C’era del legno che era difficile tagliare perché nodoso, dell’altro che si frantumava perché fiaccato dagli anni vissuti nel mare, dell’altro
ancora che si spezzava perché per natura non adatto a diventare un’ordinata.
Ci furono anche momenti di scoramento ma ci sorreggeva il sogno.
“Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare…” ha scritto Paulo Coelho.
Ed il sogno non tardò a realizzarsi visto che a fine estate la nostra barca, capace di portare due persone, fu pronta a salpare.
Altre difficoltà avevamo incontrato lungo quel percorso… come il complicato modo di conformare il fasciame alle ordinate utilizzando,
per curvarle, il vapore acqueo prodotto dall’acqua in ebollizione in una grossa caldaia.
La barca venne anche pitturata, con la vernice che avevamo a disposizione. Non ricordo bene i colori, sicuramente utilizzammo il grigio,
colore caratteristico della Marina Militare, presente in grandi quantità al faro.
Le demmo anche un nome. Dovevamo chiamarla “L’aquila dei sette mari” in onore al veliero con cui Roland Eagle amava solcare,
in compagnia della fidanzata Jasmine e del nostromo Machete i mari d’Oriente… Ma il nome era troppo lungo rispetto alle dimensioni
della barca, per cui optammo per “L’aquila dei mari”.
Fu una fatica enorme, per me, Gino e Pompeo, portarla dai “cantieri” in cui era stata costruita allo “scaro”, lo sbarcatoio dove tiravamo
a secco la barca del faro. Il viottolo era stretto e, in alcuni punti, presentava delle strozzature che rendevano tutto più difficile.
Scegliemmo un pomeriggio di calma piatta ed un’ora in cui quella parte dell’isola gode d’ombra e di frescura.
Era montata negli ultimi giorni di lavoro un po’ di preoccupazione, per la tenuta della barca e per il suo equilibrio. Molte domande
ci eravamo posti; era la prova del mare a darci ora le risposte…
Emozionati, la varammo; ci anticipò, salendovi sopra con un guizzo veloce, Bill un piccolo bracco italiano, il cane da caccia di mio zio…
Poi presi posto io.
“Uh Madonne! – gridai spaventato– Pumpè… ‘mbarcamme acque!!”
Avevamo dimenticato di otturare “l’alliémme”… (l’aleggio), il piccolo foro praticato nella carena per consentire la fuoriuscita dell’acqua
quando la barca è in secco.
Quella piccola barca, un po’ goffa e non molto stabile, ci ha accompagnato in tante giornate di pesca e per diversi anni è stata il nostro orgoglio.
Non ho mai saputo quale fine abbia fatto. Forse l’ha portata via il mare per farne tanti pezzi, magari capitati, nel tempo, tra le mani di chi
ha saputo, con estro e fantasia, ricavarne spunti per altre storie ed altre vicende.
Fonte : Ponza Racconta – http://www.ponzaracconta.it/2014/04/12/lo-stracquo-a-zannone-e-laquila-dei-mari/