Dopo molti anni, sono riuscito lo scorso anno, a trascorrere un intero inverno sull’Isola. Ai primi di novembre Ponza mi ha accolto con la sua consueta bellezza selvaggia; sebbene in autunno con i colori cupi delle brevi giornate, con il sibilo del vento sotto le finestre, con l’urlo del mare che giunge da Chiaia di Luna. Una particolarità inattesa è stato il gran numero di spari che, in ogni angolo dell’Isola, soprattutto all’alba ed al tramonto, rompeva la quiete dei luoghi.
Erano i cacciatori. La domanda che mi sono posto è la seguente: “Ha senso al giorno d’oggi la pratica della caccia?”.
Per i ponzesi la risposta è affermativa, basta vedere con quanta passione praticano questo “sport”, passando notti intere all’addiaccio, con il freddo e l’umidità a fargli compagnia, con la speranza di predare il pezzo più ambito, La Beccaccia. Fanno classifiche tra di loro, “..io ne ho prese tre…” “…tu solo una …” Poi c’è il rito del convivio ( badate che i ponzesi cacciano per mangiare le loro prede) ci si riunisce a casa dell’uno o dell’altro, per sedersi intorno ad un tavolo con apparecchiato al centro un vassoio con i famosi gnocchi con “l’arcera” (beccaccia in dialetto).
Per loro la caccia è come cogliere i frutti che la natura ti offre, come per i pescatori è raccogliere i doni del mare, (in questo periodo autunnale si organizzano grandi battute a calamari, e non mancano i merluzzi). D’altronde tutto ha un origine storica che fa in modo che la caccia sia radicata nel DNA di ogni ponzese. Tutto ebbe origine nel lontano 1795, erano pochi decenni che l’isola era stata colonizzata, per ordine del real governo napoletano, gli abitanti potevano tenere le armi in casa, anzi il governo regalò 400 fucili a chi non li possedeva, e da quel giorno ogni ponzese tenne la “scuppetta” appesa in un angolo della casa. La cacciagione era peraltro una fonte di proteine che andava ad integrare la scarna alimentazione dei coloni di allora. Nel dicembre 1829, il ministero di Polizia concesse gratuitamente ai ponzesi il porto d’armi e la licenza di caccia. Riporta un cronista dell’epoca”…è notevole che il marinaro, il campagnuolo, ed i ragazzi sono espertissimi al maneggio del fucile e la caccia forma la loro principale passione, e gli procura benanche un mezzo di sussistenza…”
Il più grande cacciatore che ho conosciuto è stato un tale che, alle prime luci del mattino, si incamminava con il cane, il fucile in spalla e nella bisaccia una colazione e l’immancabile bottiglia di vino. Arrivato su una collina si sceglieva l’ombra di un albero, e dopo aver sguinzagliato il cane, vi si sedeva sotto e cominciava a consumare la sua “marenna” innaffiandola con ampi sorsi di vino. Alla caccia pensava il cane, anzi la cagnetta che era una bellissima Cockerina pezzata grigio e nero, di nome Lola ma soprannominata “Ficasecca”. Lola aveva delle grandi orecchie che quando correva si aprivano nel vento come le ali di un uccello. Era indomita, andava dove gli altri cani non si sognavano di andare, per esempio nei rovi, negli angusti anfratti rocciosi e persino nel mare, magari a recuperare una quaglia sparata da chissà chi. Rubava letteralmente le prede agli altri cacciatori. E se qualcuno protestava con il nostro, la risposta era sempre la stessa “…che ne so io? E’ il cane che me l’ha portato…” Quando rientrava a casa la bisaccia era vuota come la bottiglia ma il carniere era pieno di prede, senza aver sparato neanche un colpo.
Quel tale era mio padre.