Pubblichiamo l’incipit del romanzo Lettere da Pandataria di Rita Bosso.
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Fine
Roma, 767 AUC
Soldato, non so se riuscirò a raccontarti quel che accadde nelle mie ultime ore a Pandataria. La nave oneraria che mi avrebbe riportato alla foce del Tevere giunse al mattino a porto Iulio; i marinai trafugarono un’anfora vinaria, la barca di Tecla la trasportò al piccolo imbarcadero della villa, due schiavi la portarono fino alla grotta più prossima; i marinai, lo sai, vendono sempre una parte della merce che trasportano e, dal momento che la barca aveva caricato anfore vinarie ad Aenaria, vendettero vino; non mancava nulla a Pandataria, te l’assicuro, c’era un bel porto in cui sostavano le navi e c’era moneta per acquistare; i divieti facevano solo aumentare il prezzo della merce. Il vino, ad esempio, non sarebbe dovuto arrivare a Pandataria, sicché quel vinello leggero che era stato caricato ad Aenaria veniva pagato quanto pregiato Falerno.
Dunque, siamo nella grotta, i due schiavi travasano il vino in altri recipienti, Julia e io li sorvegliamo; finalmente l’anfora è vuota, gli schiavi asciugano l’interno con stracci, Julia si avvicina tenendo i rotoli di pergamena tra le braccia; sembra una sacerdotessa. Li sfiora uno ad uno, se li stringe al petto, poi li infila nell’anfora. Nessuno di noi ha il coraggio di fiatare, di posare gli occhi su quella donna che sta dando l’ultimo saluto ai suoi cinque figli. Quanto tempo occorre per infilare dei rotoli in un’anfora panciuta dalla bocca larga? Lei ci mise un’eternità; poi uscì dalla grotta col suo passo leggero, la vidi risalire verso le stanze, eretta, la veste leggermente gonfiata dal vento, come se nulla fosse accaduto.
Gli schiavi ridiscendono i pochi gradini che dalla grotta conducono al porticciolo della villa, depositano l’anfora nella barca, Tecla voga energicamente verso porto Iulio; sappiamo cosa accadrà, gli accordi sono stati presi, le cifre pattuite sono state versate, l’anfora sarà collocata al posto giusto. Dal momento in cui la nave mollerà l’ormeggio di Pandataria, l’anfora diverrà la mia compagna inseparabile. Ma questa è un’altra storia.
Mangiai con Julia e con Scribonia, quella sera; mangiammo del buon pesce che Tecla aveva pescato e arrostito, e ostriche, e ricci di mare; parlammo di uccelli, non erano forse gli uccelli il motivo per cui ero arrivato sull’isola? Uccelli da osservare, da misurare, da disegnare … per disegnarli, per annotare misure e colori avevo portato rotoli di pergamena. Mi sentii orgoglioso di non averne usato neanche uno. Mi domandasti se ero stato innamorato di Julia, soldato. Ti risposi di no; mentivo. Come era possibile non amare Julia? Poteva riuscirci un sordo: non avrebbe ascoltato la voce scintillante e profonda, la risata che era la somma di tutte le risate e di tutti i gorgheggi dell’universo … Poteva riuscirci un cieco: non avrebbe incrociato gli occhi grandi, immensi, non l’avrebbe vista sorridere incurvando le labbra carnose, scavando fossette ai lati della bocca. Tutto in lei era bellezza, armonia, perfezione. Ma la sua grandezza, soldato, era nella capacità di portarsi addosso tutta quella bellezza senza fatica, senza peso.
Divago, soldato. Non ho mai parlato di quella sera prima d’ora. Mangiamo, ridiamo; Scribonia è loquace, sa essere simpatica quando vuole. Nessun accenno a Roma, alle lettere; ci importa del mare e del vento, stasera, ma Tecla assicura che il viaggio sarà tranquillo.