a Franco da Rita

E’ difficile pensarlo quieto.
Difficile accettare che non arrivi una telefonata: “Allova, ascolta…”
“Dimmi, Capo.”
Segue la descrizione a grandi linee di un viaggio di cui solo lui vede la meta, uno di quei viaggi in cui bisogna remare fino allo stremo: faticoso, avventuroso, irrinunciabile.
Il primo viaggio è stato Lo Stracquo, sette anni fa; capitai nella ciurma per caso, stiamo vogando ancora.

“Allova, ascolta: l’anno pvossimo ovganizziamo due pvemi. Tu ti occupi del pvemio lettevavio.”
“Ragioniamo, Capo” . Seee, se i viaggi si facessero con i ragionamenti nessuno partirebbe.
Se ragionassimo, ammetterebbe che l’impresa non è alla nostra portata; se ragionassimo, non potrei proporre timidamente un romanzo sulla rivoluzione napoletana del 1799 a un neoborbonico; e il Governatore neoborbonico non dovrebbe rispondere entusiasta: “Pevfetto, è uno dei più bei vomanzi che io abbia letto. Pvendo i contatti.” In qualche modo riesce a organizzare l’equipaggio, a mettere le persone giuste al posto giusto e, dopo poco, arriva il messaggino: la nave salpa.

Credo che più che il viaggio, più che la meta, per lui sia stato importante avere l’equipaggio, distribuire i compiti, motivare, delegare, fidarsi ciecamente, valorizzare. All’occorrenza, farsi mozzo. Da ultimo, scriversi il necrologio -fingendo di scriverlo per l’amico Paolo Greca-per sollevare la ciurma da un compito doloroso. Poi, tre sische ‘i vapore.

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