In questo periodo in cui siamo costreti in casa, per passare un po’ di tempo, vi propongo a puntate un mio vecchio racconto tratto dal Libro “Racconti dall’isola” , ormai esaurito.
MUTUANDO IL DECAMERONE QUESTA SERIE DI RACCONTI – ALLA QUALE I LETTORI SONO INVITATI A PARTECIPARE CON LORO RACCONTI – LA CHIAMEREMO UN PO’ PIU’ MODESTAMENTE
DECAMERINO QUARTO GIORNO
La barca di pietra di Salvatore
A Gaeta ormai è quasi sera quando arrivano sulla spiaggia le menaidi.
Tornano dalla pesca: tutte hanno a bordo, chi più chi meno, il frutto della fatica diurna: sarde, alici, sgombri, vope…
Sono tante arrivano una dietro l’altra, in fila, ordinatamente.
La prima barca arriva. Gli uomini dell’equipaggio scaricano le casse con il pescato, con movimenti rapidi ed essenziali. Sulla spiaggia ci sono gli addetti della cooperativa pescatori con i loro carretti che aspettano le barche. I collaboratori della Cooperativa le impilano ordinatamente su i loro carretti.
Appena le operazioni di sbarco della prima menaide sono terminate, approda la seconda barca, poi la terza e le altre a seguire come la precedente ha concluso le operazioni di scarico del pescato.
I carretti, appena completato il carico, si avviano verso la sede della Cooperativa a Vico Lungo, seguiti da una torma di gatti miagolanti e speranzosi della caduta di qualche pescetto. Cosa che avviene sistematicamente in alcuni punti della strada per via dell’acciottolato sconnesso. Una ruota del carretto affonda nella solita buca. Il carretto si inclina tanto che, spesso, qualcosa cade. A questo punto – specie durante la bella stagione – come per incanto, dai vicoli laterali sbucano gruppi di ragazzini vocianti, che si mettono intorno alla carretta, e aiutano il carrettiere, più con le grida che con la forza, a spingere la ruota fuori dalla buca. In quei momenti di “confusione” qualche altro pesce cade a terra – per i gatti – tra le imprecazioni del carrettiere che apostrofa, quei piccoli affamati felini, con epiteti terribili ed irripetibili.
Ma prima che il carretto – circondato da ragazzini vocianti – arrivi al deposito del pescato, da dove il mattino dopo, a mezzo ferrovia, raggiungerà i mercati di Napoli e Roma, qualche altro chilo di pesce sparisce. Ma non è destinato alle voraci fauci dei gatti del quartiere…
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Se le guardavi da lontano sembravano delle normali barche ancorate, solo un po’ più tozze. Erano quattro o cinque e distavano una diecina di metri dalla riva: barche di pietra!
I ragazzi del quartiere cominciavano a costruirle all’inizio dell’estate, quando le scuole chiudevano. Raccoglievano le pietre occorrenti lungo la riva di Calegna, dove ce n’erano in abbondanza. Le sceglievano con cura, una ad una. Dovevano incastrasi tra loro fino a formare le “murate” della barca, alte quasi un metro,sopra il pelo dell’acqua. Il fondo era costituito da uno o più strati di pietra a seconda del profondità, che comunque non superava mai i 50 – 60 cm.. Sopra le pietre del fondo veniva steso uno spesso strado di poseidonia secca, che normalmente si trovava in grandi quantità sulla spiaggia. Infine, sopra, veniva messa della sabbia, che costituiva il “pavimento” o , per dirlo in termini marinareschi, “il pagliolo” della barca di pietra.
Nonostante la cura con cui venivano costruite, le barche di pietra, avevano bisogno di manutenzione continua. Una volta il mare, una volta il vento, una volta qualche bambino meno accorto, faceva crollare qualche pietra. Insomma una volta una cosa una volta l’altra c’era sempre da armeggiare.
La barca di Salvatore C. era la più bella, sempre ordinata e linda. Aveva una specie di “polena “ sulla prua ricavata da un tronco trovato in mare, tutto levigato e dalla forma strana che ricordava da vicino un ippocampo. Era anche dipinta con i colori della città, a strisce bianche e rosse. Per il bianco usavano la calce, che Lui e i suoi compagni avevano trovato in un pozzo vicino ad una vecchia “calcara” abbandonata dalle parti di “Bevano”. Il rosso era frutto di un esproprio effettuato su una chiatta della Marina Militare, destinata a fungere da bersaglio per i tiri di artiglieria durante le manovre navali, mentre i marò addetti alla pitturazione erano intenti alla consumazione della gamella del rancio.
Salvatore si dedicava alla “sua” barca di pietra tutti i giorni durante l’estate, mentre per in resto dell’anno, solo poche ore di pomeriggio. Doveva studiare, la sua famiglia voleva che diventasse maestro
Le barche di pietra rispondevano all’istinto creativo di tutti bambini del mondo. Si erano solo adeguati alla realtà locale. Erano ragazzi di mare e costruivano barche, quelli di campagna costruivano capanne. Avevano funzioni varie; per prima cosa, erano una sorta di stabilimento balneare. Una base nella quale si lasciavano gli zoccoli e la conottiera, unici indumenti estivi. Qualcuno era costretto dalla mamma a portarsi dietro anche qualche vecchio asciugamano che, sistematicamente, non veniva mai usato. Da lì si partiva per lunghe nuotate di gruppo. Fin sotto il bordo delle navi della squadra navale, quando queste erano in rada, oppure verso i vivai delle cozze a far “razzie”, o semplicemente verso Conca e Vindicio per puro spirito di avventura.
Salvatore, grande nuotatore, guidava il gruppo. La sua abilità natatoria era riconosciuta da tutti. Nessuno temeva di affogare per crampi, sempre in agguato, se Salvatore era con loro. Più di una volta le doti natatorie di Salvatore avevano evitato disgrazie. Salvatore di nome e di fatto. Al ritorno ci si fermava sulle barche di pietra per riposare ed asciugarsi prima di tornare a casa per il pranzo. Dopo, durante la “controra”, era sempre Salvatore a guidare il gruppo di quelli che riuscivano a sgaiattolare di soppiatto fuori di casa, eludendo la sorveglianza della mamma. Si andava in corvè sulle pendici del colle Sant’Agata a raccogliere legna secca da bruciare che veniva portata alla barca di pietra, dove la sera, quando si riusciva a grattare qualche pesce, vedevi riverberare un bagliore rossastro e salire al cielo alte colonne di fumo. Nell’aria si spandeva forte, il profumo di sarde e alici arrostite.
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Federico, il figlio di Padron Peppe – il proprietario della più grande menaide a motore della flotta peschereccia Gaetana – aveva avuto l’occasione di vedere alcune attrezzature degli incursori della Marina Militare Italiana, durante alcune esercitazioni che si fecero nel Golfo di Gaeta. Si trattava delle prime rudimentali attrezzature subacquee.. Aveva visto che andavano sott’acqua coprendosi il viso con una maschera di gomma con un vetro ed avevano dei “fucili” che scagliavano a circa un metro un asta metallica con un arpione, per mezzo di grosse molle montate su un telaio di legno. Per istinto genetico, immediatamente, percepì che con quel sistema di pesci se ne potevano cacciare tanti e senza buttare le reti o gli ami.
Federico era un ragazzo gracilino, ma tenace ed ingegnoso. Dopo svariati tentativi realizzò degli occhiali con gli anelli di grosse canne a cui riuscì ad applicare dei vetri. Poteva stare sott’acqua per il tempo in cui riusciva a trattenere il respiro, con gli occhi aperti e vedere distintamente. Imitò anche il “fucile” utilizzando un vecchio arpione ad ala fissa saldato su un tondino di ferro che veniva scagliato, con una qualche efficacia, a circa un metro con delle molle ricavate dalle camere d’aria della vecchia ruota di un camion. La sua attrezzatura l’aveva provata e riprovata, ma sempre a pochi metri dalla riva. L’arpione partiva ma colpire i pescetti piccoli e mobilissimi che avevano il loro habitat in pochi metri d’acqua era impresa assai dura. Le vittime furono qualche tracina e alcune sogliole da sabbia. Ci lasciarono le ventose anche delle seppie e diversi polipi ma poco d’ altro. L’ambizione di Federico era catturare qualche grosso pesce, una grande spigola ad esempio, di quelle che si aggiravano fiere e maestose tra i pali dei vivai di cozze al largo, in mezzo al Golfo. Federico sotto l’acqua era un pesce: grande acquaticità, capacità di trattenere il respiro a lungo, occhio di lince, conosceva sia pure istintivamente anche la tecnica della compensazione che gli permetteva di scendere senza problemi oltre i 10 -15 metri. Un perfetto pescatore subacqueo ante litteram insomma!
Quella mattina di Luglio del ’33 il gruppo di Salvatore era pronto a prendere il “largo”. La spedizione di quel giorno prevedeva una puntata alle cozze, per razziarne un po’. La banda, una decina di ragazzini tra i 10 e 12 anni, si preparava alla lunga nuotata. Si allacciavano alla vita, aiutandosi l’un l’altro delle sacchette di tela grezza o yuta, che servivano a trasportare le cozze che avrebbero prelevato dai vivai. Arrivò anche Federico con tutta la sua bardatura, occhiali e fucile, si appartò con Salvatore e parlarono a lungo. Poi al segnale di Salvatore tutti in acqua. Non puntarono direttamente verso i vivai, ma effettuarono una manovra diversiva costeggiando la riva fin oltre il Pizzone per cercare di eludere la sorveglianza dei padroni dei vivai che certo non gradivano questi prelevamenti non autorizzati.
Arrivati che furono al vivaio, come una squadra di guastatori bene addestrata ognuno scelse un settore e cominciarono la “raccolta”. Federico si allontanò un po’ dal gruppo. Scelse il penultimo palo della fila verso il largo e cominciò l’appostamento. Il suo obiettivo era una di quelle grosse spigole che su aggirano tra i vivai a caccia di pesci più piccoli che a loro volta trovano il loro habitat naturale in questo luogo. Federico aveva una sola possibilità per colpirla. Doveva scendere sul fondo, tenersi appostato alla base del “palo” finchè ce la faceva col fiato e sperare che nel frattempo la spigolona gli passasse vicino senza vederlo. Scese uno, due, dieci, venti volte….la vedeva quasi ogni volta ma non si avvicinava mai abbastanza. Era curiosa di capire chi fosse quel grande pesce dai buffi movimenti, ma non si fidava, si avvicinava ma mai troppo. Il gioco tra i due continuava e nessuno dei due aveva intenzione di mollare .Federico m’immergeva in continuazione e rimaneva fin quando poteva e anche oltre…
La squadra dei raccoglitori di cozze continuava a riempire le sacchette che portavano legate alla vita. Qualcuno, più svelto aveva già completato il suo “raccolto” e aiutava gli altri meno rapidi a riempire la propria “sacchetta”. Salvatore vigilava su tutti.
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Il fumo che usciva dal breve fumaiolo della pirobarca del cozzaiolo era denso e nero, segno che la caldaia era sovralimentata nel tentativo di raggiungere presto la massima pressione d’esercizio e quindi sviluppare quanta più velocità possibile per arrivare presto sui vivai e sorprendere i ladri di cozze con le mani nel sacco.
La pirobarca era ancora lontana ma si avvicinava rapidamente…Salvatore diede l’allarme e i raccoglitori di cozze si mossero il più velocemente possibile per guadagnare la riva, muovendosi in direzioni diverse per ridurre il rischio di essere “catturati” dal padrone del vivaio. Salvatore prima di avviarsi anch’esso verso la costa, diede un rapido sguardo intorno: mancava Federico. – “E’ sotto in agguato alla spigola. Lo aspetto e andiamo via insieme.” . pensò. Ma i secondi passavano e Federico non riemergeva. Salvatore si avvicinò di più al palo e vide la sua sagoma sul fondo. Non ci pensò un attimo e si lanciò verso quella forma indistinta che vedeva immobile. La pressione dell’acqua aumentava, le orecchie gli facevano male sempre di più mentre si avvicinava al fondo, ma non poteva fermarsi, non aveva il tempo per fermarsi a compensare, per Federico ogni secondo poteva essere decisivo. Arrivò sul fondo che i timpani sembravano scoppiargli, afferrò Federico per capelli e cominciò a risalire con tutta la velocità di cui era capace, trascinandoselo dietro. Il muro d’acqua che aveva sulla testa sembrava non finire mai….
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Quando aprì gli occhi la prima cosa che vide fu una grossa spigola che, con una arpione conficcato nel corpo, dava i suoi ultimi colpi di coda sulla coperta della pirobarca dei cozzari. Federico a pancia sotto, pallido come un cencio, era squassato da terribili colpi di tosse. Aveva gli occhi strabuzzati dallo sforzo e dagli spasmi. Ad ogni colpo di tosse espelleva un po’ dell’acqua che aveva invaso le sue vie respiratorie. “Siamo vivi tutti e due” – pensò Salvatore, e levò un pensiero grato al cielo. Ma il sorriso che gli stava pure venendo naturale, per lo scampato pericolo, gli si smorzò immediatamente quando riconobbe la pelata rossiccia di Padron Andrea, il proprietario del vivaio e della barca, che stava inginocchiato vicino a Federico e lo sosteneva. – “Forza vagliò, ormai il brutto è passato, dai fatte curagge… tutto a posto.” – Gli diceva con una voce dolce in contrasto con il suo aspetto di omaccione rude. Allora Salvatore si tranquillizzò, con ci sarebbero state altre conseguenze salvo il grande spavento!
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Il Consiglio Comunale votò un ordine del giorno di encomio solenne a Padron Andrea “per aver salvato due giovani concittadini che maldestri nuotatori si erano imprudentemente avventurati al largo.”
Padron Andrea l’encomio se lo prese. Ma da quel giorno, sulla barca di pietra di Salvatore, tutte le sere si arrostivano alici e non erano quelle “grattate” darante i parapiglia organizzati intorno alle carrette di pesce dirette alla cooperativa…
FRANCO SCHIANO
FINE