Ponza.Vent’anni dopo

    di Adriano Madonna

 

Quando avevo meno di vent’anni, Ponza, per me e gli amici, era il traguardo dei nostri sogni, e quando d’estate potevamo donarci qualche giorno laggiù, ci sembrava di far rotta verso i Tropici, con l’ansimante traghetto della Span.

Il pesce era talmente abbondante da consentirci una decina di giorni di soggiorno in tenda solo vendendo il pescato ad un certo ristorante. Ricordo i grandi saraghi che giocavano a rimpiattino tra i massi del molo di Le Forna, le aragoste sulle pettate rocciose di Gavi, i dentici che sciamavano lungo i versanti della secca di Varo, i grossi polpi dello scoglio di Calzone Muto, le acque limpide di Punta Fieno e di Palmarola, dove si trovavano occhiate grosse come padelle…

Sono tornato a Ponza poco tempo fa, in uno scampolo di primavera che faceva d’oro le case di Santa Maria e il contrafforte roccioso di Capo Bianco. La magia dell’isola è quella di una volta ed è rimasta intatta fuori dallo scorrere del tempo. Prima che il traghetto entrasse in porto, ho visto le Formiche, quegli scogli affioranti che nelle giornate di “bonaccia morta” (calma piatta) sembrano insetti neri sopra uno specchio. Di fronte, la cordigliera rocciosa di Punta Madonna come la cresta di un drago, e le cappellette del cimitero dell’isola “appese” sull’acqua. Pochi cimiteri al mondo, è certo, godono di una vista così bella.

Le Formiche sono il palcoscenico di antiche leggende isolane, ma i ponzesi non le considerano tali, bensì fatti realmente accaduti ai quali non si sa dare una spiegazione terrena, circondati, come sono, di una suggestiva luce di mistero.

Il mio amico d’infanzia Carlo Di Nitto, cultore e narratore di queste “cose strane” legate al mare, mi raccontò che una volta gli isolani videro un gruppo ben folto di persone che dalle Formiche agitavano le braccia verso l’isola, e chi ebbe l’ardire di avvicinarsi con la barca, riconobbe i marinai che erano periti in un naufragio una quarantina di anni prima. È forse questo il motivo per cui davanti al cimitero di Ponza c’è una vecchia scala di ferro corrosa dal vento di mare. Quella scala, mi dissero, fu sistemata laggiù tanto tempo fa affinché i morti in mare possano raggiungere il cimitero e trovare un posto tra i loro familiari scomparsi da questo mondo, e la pace eterna.

A Ponza io sono ritornato per ritrovare ricordi antichi e sbiaditi dal tempo e un pezzo della mia giovinezza. Ho desiderato rivedere il fondo del mare della “mia” isola e ho scelto di scendere proprio al piede delle Formiche, partendo dallo scoglio più grosso e più esterno, lo “scoglio di fuori”, sul quale sono visibili pochi resti di antiche costruzioni. Nonostante la stretta vicinanza all’isola, spesso le Formiche costituiscono un mondo appartato anche nei periodi di maggior caos, come il pieno dell’estate, quando Ponza e le Pontine in genere vengono prese d’assalto da eserciti nutriti di allegri vacanzieri. Mi sono fatto accompagnare alle Formiche da un vecchio pescatore che conosco da almeno trent’anni (allora era giovane). Ho scaricato tutto l’equipaggiamento sullo scoglio e il mio amico ha ripreso il mare, con l’accordo che sarebbe ritornato dopo aver salpato i palamiti.

Mi sono preparato e sono entrato in acqua. Subito ho visto muoversi nel blu un grande banco di pesci: erano lunghi e sottili, con una livrea argentata a strisce scure verticali nel senso dorso ventre: un branco bellissimo di barracuda mediterranei, una specie che spesso si incontra nelle acque delle Pontine, ma che negli ultimi tempi effettua entrate massicce, tant’è che anche a Ventotene se ne vedono in buone quantità, in particolare sulla Secca della Molara. I lunghi e argentei barracuda non avevano fretta di fuggire. Mi sfilavano davanti e a tratti assumevano la forma di una sfera immensa, poi questa si assottigliava in un lungo fuso, con due grossi capibranco in testa. Ho scattato delle  fotografie, poi ho tentato di avvicinarmi di più ai pesci, ma questi hanno preso la direzione del largo, mi hanno mostrato le grosse code e sono scomparsi: sembrava che il mare li avesse inghiottiti. Sotto di me l’acqua era di un suggestivo blu scuro, era calda e invitante. Mi sono lasciato dunque scivolare lungo la pettata rocciosa dello “scoglio di fuori”, e, mano a mano che i colori scemavano nelle tinte cupe, nel fascio luminoso della lampada per magia sorgevano nuovi colori, quelli delle spugne rosse e gialle che rivestivano cavità grandi e piccole. Un grosso polpo occhieggiava da uno stretto cunicolo. Mi sono fermato ad osservarlo da meno di un metro di distanza. Il polpo ha allungato due tentacoli che ha fatto scivolare sul sedimento come serpenti, è diventato biancastro, ha inclinato il mantello all’indietro, si è sollevato e ha cominciato a procedere “zampettando” come un ragno. I suoi occhi grossi non mi perdevano di vista, le pupille rettangolari erano dilatate e circondate da un velo bianco punteggiato di rosso. Ho seguito il polpo e l’ho illuminato con la lampada: le pupille sono diventate due sottili fessure, poi il polpo si è infilato sotto uno scoglio ed è diventato color rosso mattone, tutt’uno con le spugne che ricoprivano la roccia. Ha allungato per qualche secondo gli occhi fuori dalla tana come due periscopi, poi si è eclissato profondamente.

Sono riemerso proprio sotto lo “scoglio di fuori”, dove avevo lasciato le mie cose quando m’ero preparato all’immersione.

Ho trovato i miei vestiti ben ripiegati nel borsone, riposti ordinatamente insieme con i sandali e l’accappatoio. Quando il mio vecchio amico pescatore è venuto a prendermi, l’ho ringraziato per avermi rifatto la borsa. Ma lui, senza fare una piega, mi ha detto che non era stata opera sua.

«E allora chi è stato?» Ho esclamato stupito.

Il pescatore mi ha guardato e con grande naturalezza mi ha risposto:

«Che v’aggia dicere, professò, certi vote succede».*

* Che vi devo dire, professore, certe volte succede

 

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