Il forte maestrale faceva spumeggiare le onde. Il mare, visto in lontananza, era pieno di “palummelle”: era questo il nome che i pescatori davano a quelle schiume biancastre che si formano sulla sommità dell’onda quando questa cede all’azione del vento e si arrotola su sé stessa. La prua del bastimento di legno in rotta da Ponza a Gaeta si scontrava con le onde incombenti, tagliandole in due e generando una serie di spruzzi di acqua salmastra, che bagnavano il ponte della piccola nave, i teloni che coprivano le merci, le corde, la scialuppa di salvataggio ed i volti dei rari passeggeri che sedevano in coperta, cercando di stare quanto più potevano nei pressi del metacentro dell’imbarcazione, per ridurre l’ampiezza dei sussulti che dovevano sopportare. Uno di questi era il giovane Ciccillo, che, in verità, aveva un altro motivo per essere preoccupato, oltre a quello che gli derivava dalle condizioni del mare e del conseguente vuoto allo stomaco. L’altro motivo era una borsa che teneva accosta alle sue gambe, coperta da un telino gommato affinché non si bagnasse e che egli non perdeva mai di vista. Che cosa conteneva quella borsa, oggetto dell’attenzione e dei timori del nostro viaggiatore, poco più che un ragazzo? Conteneva, è il caso di dire, un vero tesoro: il fondo cassa dell’unica banca esistente nell’isola e che lo zio, che ne era titolare, gli aveva affidato perché la portasse al sicuro nella sede centrale di Gaeta. La preoccupazione dello zio era più che giustificata, in quanto le fonti di informazione dell’epoca – si era nella tarda primavera del 1945- davano per imminente lo sbarco nell’isola di marinai americani. La guerra era ormai persa e gli alleati stavano occupando tutto il territorio nazionale, piccole isole incluse. Don Peppino, questo era il nome dello zio banchiere, temeva che quei fondi, che rappresentavano tutti i risparmi dei suoi compaesani, incluse le rimesse in dollari che gli emigrati mandavano alle loro famiglie, finissero per essere requisiti dai vincitori, come aveva sentito che era avvenuto in altre località vicine.
La sua “banca” non era dotata né di camera blindata e neanche di cassaforte, in quanto era ospitata nella sua stessa abitazione ed i contanti erano conservati in alcune scatole di ferro zincato, infilate in una cavità del muro maestro, nascosta da due quadri raffiguranti San Silverio e Santa Domitilla, sicuramente protettori dell’isola ma non altrettanto sicuramente in grado di proteggere i soldi da cattive intenzioni.
Almeno a Gaeta, nella sede centrale del Banco di Napoli, sarebbero stati in camera di sicurezza e, comunque, sotto la responsabilità dei funzionari bancari.
Quando il bastimento toccò l’approdo di Gaeta, Ciccillo tirò un primo sospiro di sollievo: la prima parte del compito era fatta, ora si trattava di percorrere qualche chilometro a piedi, sperando che a nessuno, in particolare a militi e a ladri, fosse venuta la curiosità di vedere che cosa il giovanotto portava in quella borsa. Il momento più critico fu proprio allo sbarco, perché sul molo sostava una pattuglia di marines per controllare quelli che arrivavano. Forse fu per la sua giovane età, forse per l’aria ingenua e noncurante che assunse, forse per il fatto che si era gettato la borsa sulla spalla come fosse un sacco di patate, forse per l’abbigliamento volutamente trascurato, ad ogni modo i militi lo lasciarono passare senza neppure guardarlo. Sforzandosi di non correre per non attirare l’attenzione, Ciccillo si diresse verso il Banco di Napoli, dove arrivò in capo ad una mezz’oretta: grande fu la sorpresa del direttore nel vedersi recapitare il gruzzolo con la lettera di accompagnamento di zio Peppino: Ciccillo si meritò i complimenti ed anche una bella mancia. Così potè finalmente distendersi e divorare un paniello pieno di pomodori freschi, placando anche la tempesta del suo giovane stomaco.